CHI VOLLE LA GUERRA CIVILE
E PERCHE'?
I GAP E L’ECCIDIO DI PIAZZALE LORETO Riapre
il processo all’ufficiale delle SS che il 10 agosto l944 fece uccidere
a Milano quindici partigiani.Inizia così una nuova campagna politica.
Nessuno ricorda che la strage avvenne per ritorsione dopo che i comunisti
avevano ucciso 5 soldati tedeschi e 13 civili italiani, innocenti, tra
i quali 3 bambini.
Paolo Pisanò
Si è aperto il 28 novembre scorso a Torino
il processo contro l'ex capitano delle SS Theodor Emil Saevecke, già
comandante della "Sichereit" tedesca a Milano fra il settembre
1943 e l'aprile 1945 (oggi ottantaseienne vicedirettore del controspionaggio
di Bonn in pensione), accusato dell'eccidio di 15 partigiani in piazzale
Loreto, avvenuto il 10 agosto 1944. Tutto è pronto per l'apertura
del secondo revival giudiziario dopo il processo di Roma contro Erich Priebke.
Ciascuno ha fatto la sua parte per preparare la scena sulla quale, come
da copione, dovrà essere nuovamente condannato il Male, glorificato
il Bene e, soprattutto, riaffermata la santità della Resistenza,
madre della Repubblica.
Ha fatto la sua parte il dottor Pier Paolo Rivello,
procuratore militare di Torino, che lo scorso anno ha riaperto il caso
dopo oltre mezzo secolo di "archiviazione provvisoria"; l'hanno
fatta i consiglieri comunali milanesi dell'Ulivo e di Rifondazione comunista
che hanno fatto approvare (in un consiglio a maggioranza di centro-destra)
una mozione per la costituzione del Comune di Milano come parte civile
contro l'ex ufficiale delle SS; l'ha fatta L'Unità che ha dedicato
cinque pagine del suo supplemento settimanale al nazista e alla sua scandalosa
carriera postbellica" nella democraticissima Germania di Bonn; l'ha
fatta anche l'amministrazione di centro-destra del Comune di Milano che,
nel candore del suo bimestrale di informazione a distribuzione gratuita
(n. 3 - ottobre 1997), ha accennato al tragico evento di cinquant'anni
or sono con queste incredibili parole: "10 agosto. Milano ricorda
i martiri di piazzale Loreto, i 15 partigiani fucilati dalle camicie nere
il 10 agosto 1944, come rappresaglia per un attentato (senza vittime) a
un camion tedesco in Porta Venezia".
C'è tutto perché lo spettacolo edificante
possa cominciare: il boia nazista, le camicie nere , il pretesto risibile
(un botto innocuo senza vittime) e, infine, le 15 vittime della barbarie
nazifascista. Manca solo un dettaglio: la verità.
LA MENSA DI PROPAGANDA DEL MARESCIALLO “CARLUN”
La verità sul perché, la mattina del
10 agosto 1944, quindici antifascisti detenuti a San Vittore (Andrea Esposito,
maglierista; Domenico Fiorano, industriale; Umberto Fogagnolo, ingegnere;
Giulio Casiraghi, tiratore di gomena; Salvatore Principato, insegnante;
Renzo Del Riccio, operaio; Libero Temolo, operaio; Vittorio Gasparini,
dottore in legge; Giovanni Galimberti, impiegato; Egidio Mastrodomenico,
impiegato; Antonio Bravin, commerciante; Giovanni Colletti, meccanico;
Vitale Vertemarchi, Andrea Ragni e Eraldo Pancini) furono condannati a
morte assieme ai loro compagni Eugenio Esposito, Guido Busti, Isidoro Milani,
Mario Folini, Paolo Radaelli, Ottavio Rapetti, Giovanni Re, Francesco Castelli,
Rodolfo Del Vecchio, Giovanni Ferrario e Giuditta Muzzolon è tutt'altra.
Perché, mentre Giuditta Muzzolon veniva graziata
e per gli altri dieci la pena di morte veniva commutata in "condanna
in penitenziario, qualora non si verifichino atti di sabotaggio",
i primi quindici furono portati in piazzale Loreto e fucilati? Per un innocuo
botto dimostrativo senza vittime ai danni di un autocarro tedesco?
No. Il sangue del 10 agosto 1944 era stato provocato
da altro sangue sparso 48 ore prima precisamente alle 7,30 dell'8 agosto,
al margine della stessa piazza (angolo viale Abruzzi-Loreto) quando una
bomba "gappista" (GAP Gruppi di Azione Patriottica, organizzazione
terroristica del Partito comunista italiano) era esplosa tra la folla compiendo
una strage che era costata la vita a cinque soldati tedeschi e tredici
civili italiani fra i quali una donna e tre bambini, rispettivamente di
tredici, dodici e cinque anni.
Ecco i nomi dei civili italiani che morirono sul
colpo nell'attentato gappista o nei giorni successivi, tutti per "ferite
multiple da scoppio di ordigno esplosivo": Giuseppe Giudici, 59 anni;
Enrico Masnata, Gianfranco Moro, 21 anni; Giuseppe Zanicotti, 27 anni;
Amelia Berlese, 49 anni; Ettore Brambilla, 46 anni; Primo Brioschi, 12
anni; Antonio Beltramini, 55 anni; Fino Re, 32 anni; Edoardo Zanini, 30
anni; Gianstefano Zatti, 5 anni; Gianfranco Bargigli, 13 anni; Giovanni
Maggioli, di 16 anni.
Rimasero inoltre feriti più o meno gravemente:
Giorgio Terrana, Letizia Busia, Luigi Catoldi, Maria Ferrari, Ferruccio
De Ponti, Luigi Signorini, Alvaro Clerici, Emilio Bodinella, Antonio Moro,
Francesco Echinuli, Giuseppe Formora, Gaetano Sperola e Riccardo Milanesi.
Dei cinque soldati tedeschi uccisi, i cui nomi non
furono annotati nei registri civili italiani, è rimasta memoria
solo di un maresciallo di nome Karl, che per la sua mole era stato soprannominato
dai milanesi di Porta Venezia "El Carlùn" (il Carlone).
Quel nomignolo che Karl, maresciallo di fureria, se l'era guadagnato fermandosi
ogni mattina, all'angolo fra viale Abruzzi e piazzale Loreto, con i suoi
camions per distribuire alla popolazione verdura, patate e frutta che la
"Staffen - Propaganda” acquistava al mercato di Porta Vittoria, aggiungeva
agli avanzi delle mense militari e regalava ai milanesi, tutti, a quell'epoca,
dannatamente a corto di viveri. Un'operazione di "public relations",
si direbbe oggi, intrapresa dalle Forze Armate tedesche nei confronti dei
civili e che, dati i tempi di fame, aveva riscosso un successo immediato.
Troppo, per la sensibilità antifascista della "GAP" di
Milano, comandata da Giovanni Pesce, detto "Visone", tutt'oggi
vivente e quindi in grado di ricostruire nei dettagli l'azione che venne
decisa e attuata per spezzare il feeling alimentare promosso dalla Wermacht
con i milanesi.
UNA ININTERROTTA CACCIA ALL’UOMO
Il risultato fu che la mattina dell'8 agosto 1944,
i terroristi del Partito comunista si mescolarono alla piccola folla che
si accalcava come di consueto davanti alle ceste del "Carlùn"
e infilarono in una di queste la bomba ad alto potenziale che, poco dopo,
avrebbe seminato la strage indiscriminata: 18 morti e 13 feriti, quasi
tutti poveracci milanesi.
Diciotto morti e tredici feriti innocenti, tutti
assolutamente dimenticati, abrogati, cancellati dalla memoria storica,
politica e giudiziaria italiana. Come se fossero indegni di ricordo, di
pietà, di giustizia. Li ha dimenticati Giovanni Pesce detto “Visoni”,
“medaglia d’oro al valor partigiano", il quale nei libri da lui scritti
sulla sua militanza gappista non ha mai raccontato questa azione che pure
non è di poco conto (18 morti e 13 feriti in un colpo solo e senza
subire perdite rappresentano un risultato ragguardevole); li ha ignorati,
a quel che sembra, il procuratore militare Pier Paolo Rivello riaprendo
il caso Saevecke; li ignorano L'Unità, l'Ulivo e Rifondazione comunista
nelle loro rievocazioni e mozioni; li ignora persino l'amministrazione
comunale di Milano (di centro-destra) che avalla senza fiatare la mutilazione
della verità storica, con l'abituale viltà, sul suo periodico
d'informazione e nei suoi atti politici.
E se, ancora dopo 53 anni, tutti ignorano (o vogliono
ignorare), perfino nella sua tragica essenzialità, la strage gappista
indissolubilmente legata alla fucilazione del 10 agosto 1944, figuriamoci
se qualcuno ricorda ciò che accadde fra il massacro e la rappresaglia.
Eppure, in quelle ore disperate, mentre la gestione dei rapporti fra militari
tedeschi e popolazione passava dalle "public relations" della
Staffen-Propaganda e del defunto maresciallo Karl, alla Gestapo del capitano
Saevecke, si impegnò un braccio di ferro durissimo fra le autorità
fasciste, contrarie alla ritorsione, e i militari tedeschi inferociti che
non volevano sentire ragione.
Si oppose il prefetto Piero Parini, che arrivò
a minacciare le dimissioni; si oppose il federale Vincenzo Costa; si oppose
Mussolini, intervenendo direttamente sul maresciallo Kesselring e su Hitler.
La prova è, tra l'altro, negli atti del processo politico subito
nel dopoguerra da Vincenzo Costa il quale, nel suo diario ("Ultimo
federale", Il Mulino, 1997) ricorda: "Alle 14 (del 9 agosto,
ndr) mi trovavo nell'ufficio dei capo della provincia quando arrivò
una nuova telefonata del duce; abbassato il ricevitore, Parini mi permise
di ascoltare la voce inconfondibile del capo. Tra l’altro egli disse: “il
maresciallo Kesserling ha le sue valide ragioni; ogni giorno nel Nord soldati
o ufficiali tedeschi vengono proditoriamente assassinati... Ha deciso di
attuare la rappresaglia. Ma sono riuscito a ridurre a dieci le vittime...
Ho interessato il Fhurer: spero ancora””.
Proprio mentre le autorità fasciste e i militari
tedeschi si contendevano le vite degli ostaggi appese a un filo, i gappisti
milanesi colpirono di nuovo. Anche questo è stato dimenticato. Alle
13 del 9 agosto 1944 un terrorista in bicicletta, armato di pistola, fulminò
con un colpo alla nuca, davanti alla porta di casa, in via Juvara 3, il
capitano della Milizia Ferroviaria, Marcello Mariani, sposato con quattro
figli. Mentre l'uomo agonizzava nel suo sangue, un secondo gappista, di
copertura, ferì a revolverate Luigi Leoni, della brigata nera "Aldo
Resega", che era sopraggiunto e si era gettato all'inseguimento del
primo. L'uccisione di Mariani fu il fatto che decise la sorte dei quindici
sventurati rinchiusi a San Vittore. Fra l'ottobre 1943 e il novembre 1944
i gappisti milanesi uccisero 103 fascisti in agguati come quello di via
Juvara. Il fondatore della "Ia GAP", Egisto Rubini, catturato
a Sesto San Giovanni alla fine di febbraio 1944, si suicidò nel
carcere di San Vittore nel marzo successivo per non tradire i suoi compagni
sotto tortura. “Medaglia d’oro alla memoria”.
UOMO QUALUNQUE N 3. 5 Dic 1997 (Indirizzo e telefono:
vedi PERIODICI)